Irresistibilmente
attratti dalla paura
Intervista
a Massimo Polidoro su Cronaca
nera
Dici Massimo
Polidoro e pensi all’uomo più scettico
d’Italia.
Scettico nel senso buono, di persona che sottopone i fenomeni che gli
interessano all’esame della ragione e della scienza e non
nel senso negativo di persona disfattista.
Polidoro è, col giornalista Piero Angela e l’astrofisica
Margherita Hack, uno dei fondatori del Comitato italiano per il Controllo
delle Affermazioni sul Paranormale, noto con la sua sigla CICAP. Sino
all’anno scorso il suo campo di indagine era il mondo del paranormale.
Dal ’95, infatti, ha pubblicato una ventina di libri su argo
menti quali lo spiritismo, l’illusionismo e molti misteri assortiti
(come il mostro di Loch Ness o il triangolo delle Bermude)... Poi,
l’anno scorso, dimenticando in apparenza l’interesse per
l’occulto, ha pubblicato un volume sui grandi gialli della storia.
E ora continua lungo questo filone con l’ultimo volume (Cronaca
nera. Indagine sui delitti che hanno sconvolto l’Italia,
ed. Piemme, 429 pp.) uscito nelle scorse settimane.
I casi esaminati vanno da un clamoroso «martirizzatore di bambine» che
agì a Roma negli anni ‘20 del secolo scorso al delitto
di Cogne, su cui ancora non si spegne la polemica, passando per la
saponificatrice di Correggio, i mostri (si noti il plurale) di Firenze,
il delitto di via Poma e altre inquietanti vicende che hanno avuto
un’immensa eco sui media. Per noi è soprattutto un’occasione
per discutere con Polidoro della fortuna che gode la cronaca nera nel
mondo dell’informazione, delle nuove tecniche investigative,
della violenza dei nostri tempi, delle paure e delle frustrazioni di
molti assassini, ma anche dei lati oscuri che si annidano in ogni persona
cosiddetta normale...
Perchè Massimo Polidoro, che conoscevamo come l’indagatore
italiano dell’occulto, passa dall’inchiesta sul «paranormale» a quella
sul «normale» per quanto patologico e spaventoso esso sia?
«Perché più che uno studioso del paranormale, mi definirei
un curioso dell’insolito: insolito che può riguardare tanto fenomeni
ritenuti paranormali, ma che magari poi hanno spiegazioni naturali (non meno
affascinanti), quanto episodi storici avvolti nel mistero. Devo dire che dopo
avere trascorso diversi anni a studiare il mondo
del paranormale, e trovandomi sempre di fronte all’impossibilità di
assistere a un autentico fenomeno, ho deciso di allargare i miei interessi
anche a misteri che non avessero niente di soprannaturale, che richiedessero
comunque fiuto investigativo ma che, alla fine, potessero anche dare
una qualche risposta. E poi, spesso i casi di cronaca nera oltre che
presentare aspetti misteriosi hanno stretti legami con il mondo dell’occulto:
penso alla vicenda del Mostro di Firenze, di cui mi occupo ampiamente
nel libro. Ma certamente, a tutti sarà venuto in mente anche
il caso che in questi giorni sta tenendo banco su TV e giornali italiani,
in cui una sensitiva sembra avere indicato dove si trovava il corpo
di una ragazza scomparsa tre
anni fa. Personalmente, ho fatto qualche verifica per il CICAP e ho
scoperto che le cose stanno un po’ diversamente: per esempio,
sembrava straordinario che la sensitiva avesse indovinato che la ragazza
era finita nel lago e non era scappata in giro per il mondo».
È invece...
«In realtà, quella era proprio la prima ipotesi fatta dalla polizia
e dai genitori stessi a suo tempo: la giovane stava tornando a casa, quella
notte pioveva a dirotto e la strada si era trasformata in un pantano. Qualcuno,
all’indomani della scomparsa, notò anche una violenta frenata
lungo la curva che si affaccia sull’area di sosta panoramica: le ricerche
partirono proprio da lì, ma i mezzi evidentemente non erano adeguati.
Ora, dopo tre anni, e dopo le ricerche da parte di un gruppo di volontari del
servizio civile (che hanno tutto il merito del ritrovamento) la ragazza è stata
trovata».
Che indicazioni deduce da questo esempio?
«Una volta che si conoscono questi particolari, ecco
che la scoperta risulta meno straordinaria.
In ogni caso, abbiamo appena iniziato un’indagine più accurata
sul caso e presto speriamo di avere notizie più precise da comunicare».
La
cronaca nera è un genere giornalistico che gode sempre di
vasto interesse? Come mai adesso è così seguita?
«Va a periodi: durante il ventennio fascista era proibita, perché bisognava
creare l’illusione che l’Italia fosse diventata un Paradiso. Dopo
la guerra, divenne un genere estremamente popolare, che contribuì in
un certo senso ad alfabetizzare la popolazione italiana. Negli anni ’70/’80,
la nera ha perso terreno di fronte a fatti di sangue ben più grandi
e sconvolgenti, dal terrorismo alla strategia della tensione. Ma dagli anni ’90
l’interesse si è risvegliato, a partire dal delitto di via Poma
fino ad arrivare a quello di Cogne. È un interesse e un fascino comprensibile, è inevitabile
essere attratti da ciò che ci fa paura, fa parte del nostro essere creature
umane. La paura è, infatti, uno dei principali strumenti di difesa dell’individuo, è uno
stimolo importante per attivare quelle reazioni che ci servono
per difenderci dai pericoli dell’ambiente».
Prendiamo
un caso come quello di Cogne, appunto: com’è possibile
che un singolo fatto di cronaca nera possa catalizzare l’attenzione
dell’opinione pubblica per mesi e addirittura per anni?
«Solo nel 2002 questa vicenda ha occupato il 3% del totale dell’informazione
in Italia. Probabilmente, ha contribuito molto l’efferatezza del delitto
e il suo presunto svolgimento nel contesto familiare; ma c’era anche
il caso umano di una madre, unica indagata che nega di esserne l’autrice,
e il carattere meramente ipotetico delle ricostruzioni, che dilatavano all’infinito
le speculazioni sulla vicenda».
Pietro
Maso, Erika e Omar, Donato Bilancia, su su fino alle Bestie di Satana:
le nostra è l’epoca più violenta della
storia?
«Sembrerebbe così, ma forse è solo un’impressione
generata dal fatto che oggi grazie ai media siamo informati su tutto quello
che accade in tempo reale e, dunque, anche i delitti ci sembrano più numerosi
ed efferati di un tempo. Ma in realtà, nel corso di tutta la storia
dell’umanità crudeltà e malvagità non sono mai mancate,
solo se ne parlava meno».
Nella
prefazione al suo volume lei parla di «effetto catartico» della
cronaca nera. In cosa consiste?
«Nel fatto che rendersi conto di quanto la violenza sia diffusa, e sia
sempre stata diffusa, può in qualche modo rassicurarci sul fatto che
i nostri tempi non sono poi così terribili come sembra. Inoltre, bollare
un assassino come “mostro”, “belva” o “bestia” si
rivela, in fin dei conti, come un modo per difendersi, per rinchiudere il male
in una casella e non ammettere così che si possa trovare in mezzo a
noi. Ma non ci aiuta in nessun modo a capire perché quella persona è arrivata
a uccidere e, magari, a farlo in un modo tanto terribile».
Ma
al di là della catarsi, la cronaca nera non rischia di avere
un inquietante «effetto emulazione»?
«Non ci credo tanto. Nel senso che chi delinque, o chi uccide, non lo
fa tanto perché legge un giornale o vede un film, ma piuttosto lo fa
perché ha dei problemi molto seri: certo, magari un articolo di giornale
gli può dare un’idea su come agire, ma il “seme della violenza” c’era
già da prima».
Lei
ha studiato parecchi casi di efferata violenza. È corretto
ritenere dei «mostri» i protagonisti, e viceversa è corretto
ritenerli persone assolutamente «normali»?
«Prima di essere giustiziato, il serial killer americano Ted Bundy, disse
agli investigatori: “La società vuole presumere di poter riconoscere
i malvagi, i perversi, coloro che fanno il male. Ma ciò non è realistico:
non ci sono stereotipi. La verità è che ci sono persone meno
disposte di altre ad accettare il proprio fallimento”. Un assassino può essere
lui o lei stessa vittima della paura, della frustrazione o del senso di inadeguatezza
di fronte al mondo. La violenza è infatti spesso una reazione di fronte
a un ambiente percepito come ostile, e che quindi spaventa. Ma invece di fuggire,
come potrebbe fare un depresso, il violento lo assale per distruggerlo».
Nelle
indagini dei nostri giorni assume un sempre maggior rilievo, soprattutto
negli Stati Uniti, la nuova figura professionale del «criminal
profiler», lo psicocriminologo. Ma come si fa ad entrare nella
testa di un criminale?
«John Douglas, il più noto profiler dell’FBI, quello che è servito
da ispirazione per “Il silenzio degli innocenti”, dice che è l’eccitazione
della caccia a spingere certi individui all’azione. Un’eccitazione
paragonabile a quella del leone nella savana. Poco importa se la predilezione
di questi individui va alle prostitute, alle donne sole, ai
bambini o ai membri di qualsiasi altra categoria. Per certi versi,
sono tutti uguali. Ma è ciò in cui differiscono, cioè le
tracce delle rispettive personalità, a fornire un’arma
in più agli investigatori. Il comportamento infatti riflette
la personalità. Douglas dice che non è sempre facile,
e non è mai piacevole, mettersi nei panni di simili individui,
entrare nella loro mente. Ma è proprio questo che ci si aspetta
da loro. Devono riuscire a capire “com’è” per
ciascun assassino».
In
che modo oggi la scienza può aiutare gli investigatori del
crimine?
«La scienza è fondamentale oggi nell’indagine poliziesca,
come si vede anche nelle tante fiction dedicate proprio a questo tema (dall’americana
C.S.I. all’italiana sui RIS di Parma). Il calcolo relativo alla forma
degli schizzi di sangue, l’analisi computerizzata delle impronte, l’esame
del DNA, il Luminol che permette di portare alla luce impronte invisibili e
tantissimi altri strumenti tecnologici permettono oggi alla polizia scientifica
di contribuire alla soluzione di casi che, un tempo, sarebbero certamente rimasti
irrisolti».
Criminali
si nasce o si diventa?
«Ci sono ovviamente casi di assassini che hanno reali problemi neurologici,
che non sono cioè responsabili delle proprie azioni; ma è spesso
molto facile che una persona criminale la diventi. Studiando la vita tanto
di serial killer quanto di delinquenti anche meno pericolosi, si scopre che
più o meno tutti hanno avuto seri problemi nell’infanzia: abusi,
violenze, mancanze gravi... Ciò significa che a un certo punto della
loro vita questi individui sono stati esposti a un’influenza profondamente
negativa. Non a caso, Douglas ama ripetere una frase che condivido: “25
anni di osservazione mi hanno convinto come insieme a più polizia, più denaro
e più carceri, ci sia anche bisogno di più amore. Non voglio
essere semplicistico; credo davvero che questo sia il centro della questione”».
Carlo Silini
(Tratto
dal Corriere del Ticino del
29 settembre 2005) |