Autocombustione spontanea?

Un fenomeno antico
Stando alle pubblicazioni più sensazionalistiche dedicate a eventi insoliti e misteriosi, sembrerebbe che il fenomeno della combustione umana spontanea (da qui in poi parleremo di SHC, che è l’acronimo inglese per questo presunto fenomeno, da “Spontaneous Human Combustion”) ossessioni da secoli l’umanità; eppure, sono pochissimi i casi registrati.

Il primo tentativo di catalogare tutti i casi allora noti di apparente SHC fu un libro, Essai sur les combustions humaines, scritto nel 1800 da tale Pierre-Aimé Lair.(3) Nel suo volume, Lair descrive uno premi casi di SHC, risalente al 1673, in cui una povera “donna del popolo” fu consumata dal fuoco a Parigi. La donna era una forte bevitrice e una notte andò a dormire su un pagliericcio e nel corso della notte morì uccisa dalle fiamme. Più celebre il caso della contessa Cornelia Zangari (vedova Bandi) di Cesena, descritto nel 1731 da padre Giuseppe Bianchini (su questo caso, in particolare, ho iniziato una ricerca che mi è stata sollecitata da un discendente della contessa Zangari).(4) Nel suo resoconto alla Royal Society di Londra, Bianchini racconta che la contessa, una donna di 62 anni, si era coricata per prendere sonno ma, il mattino dopo, di lei restavano solo i piedi e un pezzo di gamba fino alle ginocchia, parte della testa, tre dita e un cumulo di cenere. La stanza inoltre era impregnata di una strana sostanza grassa e giallastra.

Tra i più ardenti (è il caso di dirlo) sostenitori dell’ipotesi della SHC ci furono alcuni scrittori del Sette e Ottocento, come Thomas de Quincey, Herman Melville, Emile Zola e Charles Dickens. Quest’ultimo, in particolare, si ritrovò al centro di un’accesa controversia in seguito alla pubblicazione, nel 1853, del suo romanzo Casa desolata in cui un sinistro personaggio, il signor Krook, moriva per “combustione spontanea”.

Il filosofo George Henry Lewes accusò pubblicamente Dickens di sfruttare in tal modo una “volgare superstizione” popolare priva di fondamenta scientifiche.(5) Lewes concordava con l’opinione dell’eminente chimico tedesco Justus von Liebig che scrisse: «L’opinione secondo cui un uomo possa prendere fuoco da solo non si fonda sulla conoscenza delle circostanze di morte, ma sul contrario della conoscenza, la completa ignoranza di tutte le cause e condizioni che precedettero l’incidente che l’ha provocata».(6)

Dickens rispose che esistevano casi autentici, qualunque fosse la causa che li aveva provocati, che non si potevano spiegare così facilmente e che sembravano puntare piuttosto a un qualche fenomeno ancora sconosciuto. A questo proposito, elencava alcuni tra i casi più singolari, come quello della contessa Zangari, appunto, o quello di Grace Pett, la moglie sessantenne di un pescatore di St. Clement, Ipswich. La donna era morta nell’aprile del 1744 in circostanze misteriose. Aveva bevuto una «grossa quantità di un liquore alcolico» e stava per prepararsi a fumare la pipa quando fu vista l’ultima volta. Quando il marito tornò trovò solamente un cumulo di cenere al posto del suo corpo.(7)

Nel loro dibattito, Dickens e Lewes non si resero conto di stare discutendo su due questioni diverse. Lewes, da bravo scienziato e razionalista, sosteneva che non esistevano motivi o meccanismi fisiologici che potessero giustificare una combustione dall’interno del corpo umano. È vero che alcuni teorici dell’epoca avevano notato una correlazione stretta tra l’alcolismo delle vittime e la SHC e avevano così ipotizzato che i tessuti corporei impregnati d’alcol potessero facilitare l’autocombustione. Tra questi ci furono anche vari gruppi di moralisti dell’epoca che utilizzavano la SHC come pretesto per allontanare la gente dall’alcol. Tuttavia, fu fatto notare che una persona sarebbe morta di avvelenamento da alcol molto prima di potere raggiungere un livello di impregnazione dei tessuti tale da renderli infiammabili. Lewes, insomma, puntava il dito su una mancanza di “causa”, mentre Dickens si limitava a notare l’esistenza di un “effetto”, qualcosa succedeva e non si capiva perché.

Nell’Ottocento si registrò un’altra manciata di casi e nel corso del Novecento fu segnalata una ventina di presunte vittime della SHC, di cui la più celebre è senz’altro la signora Reeser, la cui storia abbiamo raccontato all’inizio di questo articolo.

In mancanza di altri studi scientifici e completi sul fenomeno, due studiosi americani, il mio caro amico Joe Nickell e il suo collega John F. Fisher, un analista forense del laboratorio di criminologia della polizia di Orange County, a Orlando in Florida, dedicarono due anni a un esame di tutti i casi conosciuti di SHC, in modo da capire quali conclusioni era possibile trarre.(8)

L’inchiesta di Nickell e Fischer
Tra gli altri, Nickell e Fisher raccontano qualche altro caso risalente al XVIII secolo: quello, del 1749, di una donna francese ottantenne, la signora de Boiseon, che apparentemente «per anni non bevve altro che alcolici» e il cui corpo fu trovato ancora fumante su una sedia «vicino al caminetto», e quello, del 1774 circa, della cinquantaquattrenne Mary Clues di Coventry, una «forte bevitrice», la cui morte gli investigatori attribuirono al fatto che la sua camicia da notte avesse preso fuoco, o a causa «della candela sulla sedia, oppure per colpa di un tizzone caduto dal camino».

Per quanto riguarda l’Ottocento, altri casi sono i seguenti: qualche tempo prima del 1835, la trentenne Hannah Bradshaw, alcolista, morì bruciata a New York; il calore che consumò il suo corpo aprì un buco sul pavimento e le ossa della ragazza, insieme a un suo piede, furono trovati al piano sottostante. Significativo il fatto che vicino al foro fu scoperto un candelabro con candela.

Nel 1852 John Anderson, un trasportatore di legnami, «noto bevitore di liquori», fu visto scendere dal suo carro, inciampare e bruciare fino alla morte. Il suo corpo fu carbonizzato e ciò fu trovato essere consistente con il fatto che i suoi abiti avevano preso fuoco e non c’erano stati ulteriori fonti che alimentassero le fiamme. La pipa di Anderson fu trovata sotto il suo corpo.

Nel 1908, una professoressa inglese in pensione, Wilhelmina Dewar, fu trovata morta: il corpo era bruciato ma il letto su cui giaceva era rimasto intatto. All’inchiesta, però, la sorella spiegò che quando era arrivata aveva trovato la sorella «bruciata, ma ancora viva» e l’aveva «aiutata a camminare fino al letto dove poi morì».

Da questi casi, tipici dei trenta esaminati, emersero alcuni elementi ricorrenti. «Per esempio» spiega Nickell «notammo che sembrava esserci effettivamente una correlazione tra lo stato di ubriachezza e casi di apparente SHC, ma determinammo che la correlazione era probabilmente dovuta al fatto che gli ubriachi sono più imprudenti con il fuoco e meno pronti a rispondere in maniera efficace a un incidente».

L’opinione medico-legale
«In letteratura» spiega Mark Benecke del dipartimento di medicina legale della polizia di New York «non esistono casi noti in cui gli organi interni di un corpo bruciato sono stati trovati più danneggiati delle parti esterne. Questa osservazione pratica è una prova del fatto che la combustione non comincia mai dall’interno di un corpo».

Benecke e il suo collega David Pescod, biologo, hanno da tempo reso noti i risultati relativi a un esame condotto sui 200 migliori casi di presunta SHC e hanno rilevato alcune interessanti caratteristiche ricorrenti.(9) Hanno confermato innanzitutto la correlazione tra ubriachezza e autocombustione.

Inoltre, hanno scoperto un’altra correlazione molto più significativa: nei casi in cui la distruzione del corpo era relativamente ridotta, l’unica fonte significativa di carburante sembrava essere stata fornita solo dagli abiti dell’individuo; dove invece la distruzione era considerevole, erano sempre presenti fonti addizionali di carburante (poltrone imbottite, pavimenti di legno, tappeti…) che alimentarono la combustione. La presenza di materiali simili sotto i corpi, inoltre, sembra contribuisca a trattenere i grassi sciolti che continuano così a bruciare altre parti del corpo e a trattenere altro grasso in quello che è stato definito come “effetto candela”.

La scoperta di questa correlazione tra l’ammontare di distruzione del corpo e la quantità di fonti combustibili esterne costituisce un elemento importante contro l’ipotesi di una misteriosa fonte di calore “interna” all’uomo. Inoltre, il fatto che vicino ai corpi bruciati sia sempre stata ritrovata una possibile fonte di accensione, come candele, lampade a olio o camini, rende ancora meno plausibile l’ipotesi della combustione umana spontanea.

Come si spiega allora che il forno crematorio di un cimitero richieda ben 1.300 gradi centigradi per potere incenerire un corpo? Con il fatto che tale elevata temperatura è necessaria se si intende terminare il processo nel giro di un’ora. Tuttavia, secondo gli studiosi, un corpo umano può essere completamente distrutto da temperature molto più basse se c’è più tempo a disposizione.

Sono anche state spesso riportate abbondanti tracce di una sostanza grassa che impregnava gli oggetti circostanti. Pare dimostrato che esista un “effetto candela inverso”: i vestiti iniziano a bruciare carbonizzando parte del corpo e facendone colare il grasso, che li impregna e alimenta ulteriormente la combustione: come una candela con lo stoppino attorno anziché in centro. Questo si accorda anche col fatto che le vittime solitamente non erano magre, e che gli arti - soprattutto inferiori - che contengono meno grasso e spesso non sono coperte da indumenti, sono le parti che più facilmente si salvano, e restano ad aggiungere orrore alla scena dell’incidente.

Thomas J. Ohlemille, un esperto del Center for Fire Research al Department of Commerce degli Stati Uniti, spiega: «Le morti da incendi provocati dalle sigarette sono tra le più comuni negli Stati Uniti. L’incenerimento si espande lentamente e può a volte consumare mobili interi senza fiamme».

È proprio per via delle tante possibilità di spiegazione naturale, e della mancanza di prove convincenti che la comunità scientifica non considera la combustione umana spontanea un fenomeno realmente esistente. Non è infatti compreso tra le malattie elencate nell’International classification of diseases, compilata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, né nell’Index medicus, l’indice della letteratura medica.

Il caso “meglio documentato”
Cosa dire, infine, del caso della signora Reeser, indicato da molti come “il caso meglio documentato” di SHC? In apparenza non furono trovate fonti esterne che avrebbero potuto dar fuoco alla donna e il corpo fu quasi completamente distrutto. È stato condotto un attento esame di tutte le fonti originali, a partire dai rapporti della polizia, ed è stato possibile determinare che l’ultima volta che la signora Reeser fu vista (dodici ore prima della scoperta dei suoi resti) indossava una vestaglia di tessuto sintetico, era seduta in una poltrona, fumava una sigaretta e aveva appena preso due pillole per dormire. Una volta che sono noti questi particolari, il mistero evapora: forse, la signora Reeser aveva preso sonno con la sigaretta ancora accesa; questa le era caduta e aveva dato fuoco alla vestaglia. L’imbottitura della poltrona e il grasso della donna possono avere alimentato per varie ore il fuoco - che in questi casi può essere molto basso e non generare fiamme. Il piede, probabilmente, rimase intatto perché, quando le gambe della poltrona cedettero, nel cadere una gamba della signora si tese fuori dal raggio del fuoco.

In conclusione, la convinzione della comunità scientifica è che la teoria dell’autocombustione umana, per quanto suggestiva, non ha alcuna base di scientificità e può avere delle spiegazioni alternative più semplici. «Le fotografie e i resoconti pubblicati finora su presunti casi di autocombustione» conclude Benecke «possono essere spiegati da meccanismi ben noti che si ritrovano presso il sito dell’incidente. Non c’è alcun bisogno di inventare bizzarre reazioni chimiche o attività paranormali per spiegare ciò che viene erroneamente definito come “autocombustione umana”».

Massimo Polidoro


Note
1) Citato in Reader’s Digest Mysteries of the Unexplained, Reader’s Digest Association, Inc., Pleasantville, New York, 1982, p. 87.
2) Ibid.
3) Lair, Pierre-Aimé (1880), Essai sur les combustions humaines, Parigi: Crapelet.
4) Il resoconto di Bianchini fu presentato alla Royal Society di Londra il 4 aprile 1731.
5) Lewes, George Henry, “Spontaneous Combustion”, Blackwood’s Edinburgh Magazine, 89, aprile 1861, pp. 385-402.
6) Liebig, Justus von (1851), Familiar Letters on Chemistry, n. 22, Londra: Walton & Maberly.
7) Sulla diatriba tra Dickens e Lewes vedi: Blount, Trevor (1970), “Dickens and Mr. Krook’s Spontaneous Combustion”, Dickens Studies Annual, pp. 184-190.
8) Nickell, Joe e Fisher, John F., “Spontaneous Human Combustion”, The Fire and Arson Investigator, 34, n. 3, marzo 1984, pp. 4-11; 34, n. 4, giugno 1984, pp. 3-8. Vedi anche: Nickell, Joe. "Fiery Tales That Spontaneously Destruct", The Skeptical Inquirer, March/April 1998. E anche, sempre di Nickell: "Not-So-Spontaneous Human Combustion", The Skeptical Inquirer, Nov/Dic 1996.
9) Benecke, Marc. Spontaneous Human Combustion. Thoughts of a Forensic Biologist. The Skeptical Inquirer, marzo/aprile 1998.