Tra due giorni sarà un anno che Umberto Eco ci ha lasciato.
Oggi che si parla di post-verità e false notizie, ascoltare le sue parole sarebbe stato come respirare una boccata d’aria fresca.
Nella sua assenza, però, può essere piacevole rileggere una sua riflessione su bugie e verità applicata alla narrazione.
«Un romanzo è un caso di menzogna?» scriveva Eco in una Bustina di Minerva dell’8 luglio 2011. «A prima vista dire che don Abbondio ha incontrato due bravi nei pressi di Lecco sarebbe una bugia perché Manzoni sapeva benissimo di raccontare una cosa che si era inventato. Ma Manzoni non intendeva mentire: “faceva finta” che quello che raccontava fosse accaduto davvero e ci chiedeva di partecipare alla sua finzione, proprio come accettiamo che un bambino, che impugna un bastone, faccia finta che sia una spada.
«Naturalmente la finzione narrativa richiede che vengano emessi segnali di finzionalità che vanno dalla parola “romanzo” sulla copertina, a inizi come “c’era una volta”. Ma spesso incomincia con un falso segnale di veridicità.
«Ecco un esempio: “Il signor Lemuel Gulliver… tre anni fa, ormai stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff, comprò un piccolo appezzamento di terra nei pressi di Newark… Prima di lasciare Redriff, mi ha affidato questi fogli… Li ho letti con attenzione tre volte e devo dire che… la verità soffia su ogni pagina ed infatti l’autore stesso era talmente noto come persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l’avesse detta Gulliver”.
«Nel frontespizio della prima edizione dei Viaggi di Gulliver non appare il nome di Jonathan Swift come autore di finzione ma quello di Gulliver come autobiografo veritiero. Forse i lettori non si fanno ingannare perché, dalla “Storia vera” di Luciano in avanti, le esagerate affermazioni di veridicità suonano come segnale di finzione, ma spesso in un romanzo si mescolano in modo così stretto fatti fantastici e riferimenti al mondo reale che molti lettori perdono la bussola.
«Così accade che prendano sul serio i romanzi come se parlassero di cose realmente accadute e che attribuiscano all’autore le opinioni dei personaggi. E vi assicuro, come autore di romanzi, che al di là, diciamo, delle 10 mila copie, si passa dal pubblico abituato alla finzione narrativa al pubblico selvaggio per cui il romanzo viene letto come sequenza di affermazioni vere, così come al teatro dei pupi gli spettatori insultavano il fellone Gano di Maganza.
«Mi ricordo che nel mio romanzo Il pendolo di Foucault il personaggio Diotallevi, per burlarsi dell’amico Belbo che usa ossessivamente il computer, gli dice a pagina 45 “la Macchina esiste, certo, ma non è stata prodotta nella tua valle del silicone”. Un collega che insegna materie scientifiche mi aveva sarcasticamente osservato che la Silicon Valley si traduce Valle del Silicio.
«Gli avevo detto che sapevo benissimo che i computer si fanno col silicio (in inglese “silicon”), tanto è vero che se fosse andato a vedere la pagina 275 avrebbe letto che, quando il signor Garamond dice a Belbo di mettere nella “Storia dei metalli” anche il computer perché fatto col silicio, Belbo gli risponde: “Ma il silicio non è un metallo, è un metalloide”. E gli ho detto che a pagina 45 anzitutto non parlavo io bensì Diotallevi, che aveva pur diritto di non sapere né le scienze né l’inglese, ma che in secondo luogo era chiaro che Diotallevi si stava burlando delle cattive traduzioni dall’inglese, come chi parlasse di un “hot dog” come di un cane caldo. Il mio collega (che diffidava degli umanisti) ha sorriso con scetticismo, ritenendo che la mia spiegazione fosse un povero rappezzo.
«Ecco il caso di un lettore che, sebbene istruito, anzitutto non sapeva leggere un romanzo come un tutto, collegando le sue varie parti, in secondo luogo era impermeabile all’ironia, e infine non distingueva tra opinioni dell’autore e opinione dei personaggi. A un non-umanista del genere il concetto di “fare finta” era ignoto».
Così come è ignoto a tutti coloro che oggi leggono Facebook come fosse il New York Times e prendono per oro colato ogni scemenza pseudoscientifico.
Come diceva ancora Eco: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli. Prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
Purtroppo, l’attualità ci dimostra che aveva ragione lui.
Massimo Polidoro
Scrittore, giornalista e Segretario del CICAP, è stato docente di Metodo scientifico e Psicologia dell’insolito all’Università di Milano-Bicocca. Allievo di James Randi, è Fellow del Center for Skeptical Inquiry (CSI) e autore di oltre 40 libri e centinaia di articoli pubblicati su Focus e altre testate. L’avventura del Colosseo è il suo nuovo libro, e tra gli altri Rivelazioni, Il tesoro di Leonardo e i thriller Il passato è una bestia feroce e Non guardare nell’abisso. Segui Massimo anche su Facebook, Twitter, Periscope, Instagram, Pinterest, Telegram e la sua newsletter (che dà diritto a omaggi ed esclusive). Per invitarmi a tenere una conferenza scrivi qui.
7 risposte
Un gran libro, quello di Pegorari da te opportunamente segnalato, e per molti versi inatteso: analitico, puntuale, colto senza essere criptico, indaga con gli strumenti dell’italianistica l’impegno di Eco contro la “paranoia del complotto”, aspetto ricorrente (forse fondante) dell’intera sua opera narrativa.
Già, “mentire e far finta non sono la stessa cosa”. Eco parlava dei lettori di romanzi ma qui mi sembra ci siano difficoltà pure col titolo di un articolo.
Ecco, l’accostamento tra Eco e pst-verità è più che appropriato; basta leggere uno dei suoi più famosi romanzi “Il nome della rosa”, dove le sue false visioni del medio evo cristiano vengono spacciate per pura verità,
Non è chiaro a che cosa ti riferisci, Maurizio. Puoi spiegare?
Confronti i falsi miti medievali propagandati dal compianto (non certo da me) Eco nel suo romanzo ‘Il nome della rosa’ e gli studi su questa bellissima epoca, durante la quale la nostra civiltà raggiunse il vero apice artistico e culturale, della prof.ssa Regine Pernaoud.
Maurizio, Umberto Eco conosceva benissimo la realtà del Medioevo: il suo era un romanzo, pur ambientato in un mondo reale. Non ripeta l’errore del lettore che scambia il “fare finta” con “l’ignoranza dell’autore” 😉
Proprio perché Eco conosceva l’ambiente medievale, le sue menzogne sono ancora più gravi.